di Fabrizio Stelluto, VicePresidente Vicario UNARGA
Sono ormai decenni che c‘è da preoccuparsi, quando il Governo parla di scuola; non fa eccezione l’idea del “liceo del made in Italy”, confondendo l’offerta formativa con l’offerta occupazionale. Da tempo, perlomeno nell’Italia dove il titolo di studio non è uno status symbol ma un viatico lavorativo, gli istituti tecnici, garantendo alti tassi di occupabilità, fanno concorrenza ai licei, che infatti (soprattutto i classici) lamentano non di rado cali di iscrizioni; quindi, parlare di “licei del made in Italy” non rende merito alla moderna didattica, sviluppata negli istituti agrari, così come nella gran parte delle scuole professionali.
In realtà è che, nella nostra società, la scuola sforna tenenti, che si credono colonnelli ed aspirano a diventare generali senza il necessario cursus honorum. E’ una profonda questione di riconoscibilità e rispetto sociale, amplificata dal culto dell’immagine, che condiziona la vita soprattutto dei più giovani. Oggi non è sufficiente essere bravi cuochi, è necessario ammantarsi di essere chef, come se nel successo di un locale non fossero determinanti anche la brigata di cucina ed il servizio al tavolo. Altrettanto può dirsi per le eccellenze agroalimentari, che abbisognano di sapienza realizzativa, ma nascono da materie prime, che si coltivano in campo o si allevano in stalla.
Quindi, il problema non è la scuola, ma affermare la consapevolezza che il successo di un prodotto è un percorso di filiera, dove ciascuno ha un ruolo determinante; invece, nella costruzione del valore agricolo, pesa smisuratamente più la distribuzione (con annessi e connessi) che chi produce le materie prime, privilegiando così la cornice alla qualità del prodotto.
Non servono, insomma, ulteriori licei, ma un Ligabue, che ci faccia innamorare dei “mediani” del settore primario, indispensabili non solo a far brillare i campioni ma, nel caso, a farci sopravvivere, perché senza cibo, così come senza acqua ed aria, tutto il resto è fuffa.