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PERCHE’ CAMBIARE LE NOSTRE CASE. Mitterer e Pica Ciamarra scrivono per UnargaNews

Massimo Pica Ciamarra parla a Palazzo Donn’Anna a Posillipo; alla sua destra Witti Mitterer

Gli scienziati ricordano che le pandemie non sono fenomeno raro. Ci sono state in passato, ci saranno ancor più frequentemente in futuro: favorite da crescita demografica e improprie densità di attività umane. Non solo dovranno cambiare sostanzialmente i modi in cui creare ambienti di vita e città. Sperimentato l’attuale lungo periodo di “arresti domiciliari”, anche la casa dovrà mutare per rispondere a nuovi requisiti. Non bastano case antisimiche, non basta che tendano ad azzerare i consumi, non basta che rispondano alle infinite norme che via via si susseguono. È essenziale ripensarle.

C’è stato un lungo periodo durante il quale funzioni che storicamente si svolgevano nella casa sono state espulse, le superfici sono andate riducendosi al cosiddetto essenziale. Il Covid-19 spinge a ripensare l’alloggio perché consenta anche di isolarsi in condizioni attive e piacevoli, o di partecipare ad azioni comuni stando ciascuno di per sé.  Gli alloggi dovranno affrancarsi sia dalle riduzioni proprie delle ricerche sull’existenz minimum, sia dalla più recente moda dello spazio continuo e unitario. Ogni abitante dovrà potersi anche isolare acusticamente per lavorare o apprendere a distanza senza disturbare chi contemporaneamente partecipa a teleconferenze, incontri Skype e così via.

Come occorre spazio per biciclette, carrozzine o altro, si è ora capito che è irrinunciabile dotare ogni casa anche di una “stanza” all’aperto -una loggia, una terrazza, un “orto urbano”- cioè di uno spazio aperto e realmente abitabile. Inoltre, ormai acquisito il requisito nZEB, occorre garantire riscontri d’aria e incentivare la sperimentazione di logiche di areazione naturale adatte a sostituire l’aria condizionata. Basta con impianti che sprecano energia cercando di correggere errori di progetto. Per gli ambienti confinati si rafforza la necessità di difendersi dai tanti pericoli dell’indoor.

Salute, benessere psicofisico, umore e vivibilità, chiedono di guardare fuori, captare raggi di sole, vedere la luna, a volte proteggersi, anche di ben utilizzare i colori. Poi ci sono le questioni dei materiali di finitura interna che, oltre agli ovvi requisiti di eco-compatibilità, adatti anche a semplificare igiene, pulizia, manutenzione. Le case dovranno essere capaci di interloquire con la robotica nei casi in cui serve. Le coperture degli edifici non saranno mai più spazi abbandonati, ma annessi agli alloggi, protetti da pergole fotovoltaiche, trattati a verde di vario tipo, adatti a captare l’acqua piovana; inclinati quando occorre far defluire la neve.

Non meno dei 2/3 del costruito sono case. Sostanziale rifuggire da “isolati”, cioè da quanto -come dice la parola stessa- non partecipa allo spazio urbano. Senso del costruire è contribuire a formare città/civiltà, definire parti -“frammenti”- che creino condizioni di aggregazione e socialità. Il Covid-19 ha chiuso in casa 4 miliardi di individui, 60 milioni di italiani: in moltissimi luoghi -nel nord come nel sud della penisola- ciascuno dalla sua casa -sui tetti, sui balconi, dalle finestre- ha dialogato con altri, ha cantato, ha contribuito a fare musica insieme. Ciò però non è stato possibile ovunque, perché nel costruito contemporaneo non dovunque esistono condizioni di “città”.  “Architettura seconda natura”, parola di Goethe!

Massimo Pica Ciamarra e Witti Mitterer (Fondazione Italiana Bioarchitettura e antropizzazione sostenibile dell’ambiente)

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